Il processo di valorizzazione di un marchio deve puntare ad un obiettivo specifico, che nel tempo concorre ai risultati di un’impresa in modo non sostituibile.
Nel precedente capitolo abbiamo compiuto una passeggiata storica dall’origine del marchio di fabbrica verso la definizione del marchio aziendale moderno.
Abbiamo fissato alcuni punti fermi del processo di costruzione e valorizzazione del proprio marchio – il branding – punti che è il caso di ripetere almeno un’altra volta:
- il marchio non è il logo;
- il logo è un attributo materiali del marchio;
- il marchio è una somma di attributi materiali e immateriali;
- questa somma di attributi determina direttamente l’esperienza, percezione, associazione del consumatore con il marchio.
Chiariamo un punto fondamentale: non c’è percezione e associazione con un marchio se non attraverso la percezione e associazione con il prodotto, il servizio e l’azienda.
Sembra una puntualizzazione banale, ma è per chiarire la questione tangibile vs intangibile:
attributi sia tangibili che intangibili creano la percezione che si ha di un marchio
MA
gli esiti di questa percezione sono del tutto tangibili, in relazione al comportamento di acquisto del consumatore.
Per arrivare al concetto cardine del branding, è utile procedere a ritroso:
- Da cosa deriva il valore di un marchio:
dai suoi ricavi.
- Da cosa derivano i ricavi?
dalla quantità di acquisti da parte dei consumatori.
- Da cosa sono spinti a comprare i consumatori?
(più o meno in ordine):
- dal prezzo;
- da relazioni esistenti che influenzano la scelta;
- dalla percezione di quel dato prodotto o servizio.
Bene, stringiamo sulla percezione. Che cosa la determina?
Due cose:
- qualità intrinseche, o anche bontà di prodotto/servizio;
- singolarità, o anche differenziazione.
E siamo arrivati al concetto cardine.
Ammesso che il prezzo di ciò che si offre sia competitivo;
ammesso di incontrare il favore di chi influenza il compratore;
ammesso che il nostro prodotto/servizio sia di qualità attestabile:
conta quanto prodotto/servizio sia percepito come differente, singolare, identitario, riconoscibile, memorizzabile. Ecco il fine ultimo del branding.
Avere un prodotto, un servizio, un’intera azienda che fallisce di esprimere e far percepire una misura di differenziazione e singolarità, è in primis una cosa: rischioso.
(Nonché, in concreto, impraticabile per una piccola media impresa. È la grande industria che può rischiare una politica di “prezzo imbattibile, qualità sufficiente” senza puntare sulla singolare peculiarità del proprio prodotto o servizio. È una alternativa anche solo pensabile fuori dalla dimensione dei massivi volumi di vendita?)
La costruzione, sedimentazione e sviluppo degli attributi tangibili e intangibili di un marchio è un processo strategico imperniato al massimo sul concetto di differenziazione.
Il fine del branding è “attribuire la singolarità” (i.e.: differenziare) di prodotto, servizio e azienda stessa, per creare la desiderata percezione nei confronti dei destinatari forti.
(Chi identificare come destinatari forti, in inglese gli stakeholders? Non solo i clienti, ma in modo fondamentale anche dipendenti, fornitori, collaboratori, attraverso i quali sono veicolate molte delle qualità intangibili di un marchio).
Questo processo strategico richiede una visione degli obiettivi di lungo termine dell’azienda, la chiara idea della dimensione presente, e di quella che si vuole raggiungere (se lo si vuole) nel tempo.
E la comprensione di due aspetti importanti.
Il primo: l’essenza di un marchio è essere un’idea singolare.
Il secondo: branding è interpretare sé stessi per differenziarsi in modo strategico.
Giuseppe Restano – Redattore Pubblicitario