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Da marchio di fabbrica a marchio, da brand a branding

Oggi parliamo di considerazioni, fatti storici (nazionali) e prime conclusioni del branding. Senza anticipare quale elemento – se muro, trapano o punta – rappresenta il branding all’interno della metafora; e prima di elencare le tipologie del branding utili per una PMI, nella prossima puntata. 

Per procedere senza dare nulla per scontato, è dovere descrivere cosa si intende, cos’è, cosa non è il branding, pur in maniera molto sintetica. 

E lo facciamo uscendo, quanto più possibile, dalla necessità delle diciture anglosassoni per favorire una maggiore comprensione (il tema degli anglismi, la loro dilagazione, e gli effetti tangibili sull’impoverimento linguistico non-anglosassone è materia sentita, anch’essa oggetto di approfondimenti video in divenire).

Partendo in modo scolastico, brand è tradotto senza difficoltà dall’italiano marchio.

L’Italia, praticamente un secolo prima dell’invasione della dicitura anglosassone, è stata sacro suolo, assieme a pochi altri paesi, della proliferazione del concetto di marchio. 

Concetto che è derivazione per direttissima di uno strumento: quello giuridico, di marchio di fabbrica, resosi necessario per tutelare i tratti distintivi di prodotti e o di imprese. 

Prima di noi lo strumento giuridico lo introdussero, in ordine, Francia, UK, USA, Germania; l’Italia arrivò circa 10 anni dopo i primi, 7 anni dopo l’Unità, ma non si guardò più indietro (un bel compendio dei marchi italiani si trova qui, https://www.museodelmarchioitaliano.it/ ).

Come faremo sempre nell’arco di queste colonne a venire, diamo qualche numero e raccontiamo qualche fatto (“CECI N’EST PAS UNE STORYTELLING”).

© C. Herscovici/Artists Rights Society (ARS), New York

Prendiamo la sola Torino, capitale industriale nazionale fino almeno a tutti gli anni ‘50. Un egregia iniziativa della Camera di Commercio torinese ha portato alla compilazione della banca Marchi Torinesi nella Storia, consultabile su http://matosto.it/, che mette a disposizione del pubblico i verbali delle domande di registrazione di marchi nazionali. 

Purtroppo, ma evidentemente non si poteva fare di più, la conta comincia dal 1926; si conclude nel 1991, quando l’Ufficio Brevetti inizia a mettere a disposizione le immagini. Traccia certa prima di quella data, in quanto a marchi, non è depositata: ma per dare un dato strabiliante sull’entità dell’industria torinese, nel 1872 le attività industrie in città e campagne erano già 183 e occupavano 13.500 operai.

I numeri di questi 65 anni di marchi torinesi – tolti gli anni della Guerra, quando un bombardamento manda in rovina una parte del palazzo della Camera e in fumo parte dei documenti: 35.000 verbali, 14.045 marchi figurativi. 

Numeri autoesplicativi sul rapporto Italia-marchio (prima ancora di guardare oltre le cifre, e mirare che fetta di originale Made in Italy vi si trova contenuta).

Ma chiudiamo la parentesi storica (probabilmente dilungata, ma si spera adeguatamente curiosa e informativa). E procediamo aiutandoci con l’uso delle proposizioni negative. 

Un nome e un logo non sono il marchio.

Nome e logo sono, segnatamente, manifestazioni tangibili di un marchio.

Ma un marchio si articola piuttosto attraverso valori e qualità intangibili.

Queste qualità accorpano tutte le percezioni, associazioni ed esperienze legate al prodotto, servizio e azienda stessa. E si esprimono attraverso ogni passaggio che va dalla vendita, alla fatturazione, ai servizi post-vendita.

Arriviamo così alla prima conclusione, e vediamo di definire cos’è il branding tornando necessariamente alla dimensione anglofona. Infatti, la brevitas era del latino, è oggi dell’inglese, non lo è dell’italiano: il passaggio semantico da brand a branding non può essere altrettanto reso con una sola parola, che parta da “marchio”.

Si necessita quindi una pur breve definizione. Sulla base delle precisazioni di qualche riga sopra, definiamo il branding come:

“Il processo strategico di costruzione, sedimentazione e sviluppo delle qualità intangibili di un marchio, in aggiunta alla scelta e aggiornamento delle sue qualità tangibili”.

Ben altro vi sarebbe da aggiungere, ma non sovraccarichiamo. C’è già di che lasciare a marinare.

Riprenderemo il discorso in breve, forse con un aumento forzoso degli anglismi, ma faremo del nostro meglio per ragionare in termini facili e immediati.

Nota a margine del testo

Chi scrive è un traduttore inglese, ha forti legami famigliari con l’ambiente anglofono, e afferma il primato dell’inglese come lingua viva, che non puoi smettere di studiare e approfondire. Le osservazioni sparse nel testo sono espresse nella prospettiva di chi deve trasmettere strumenti e conoscenze a terze parti, i quali spesso diffidano o mal interpretano concetti che si presentano come intraducibili. Tutto, al contrario, è traducibile e spesso meglio comprensibile a partire dalla lingua d’uso.

Giuseppe Restano – Redattore Pubblicitario